PREMESSA
di Giuseppe Sergi
State per leggere pagine che sono più di storia che di memoria. La ricostruzione degli eventi ci fa apparire chiare vicende che il ricordo normalmente appiattisce. Nella memoria risultano di solito ingigantiti i fatti più recenti, offuscati e al tempo stesso mitizzati quelli più lontani. Qui non è così. I documenti consultati si impongono con forza nella ricostruzione di Chiara Sasso: ci consegnano una realtà analizzata, ci ricordano particolari che particolari non sono e che, nell'accidentato svolgersi di una resistenza di valle, hanno rappresentato vere svolte. Tuttavia la memoria soggettiva dell'autrice e delle sue fonti "umane" fa ingresso da mille porte, la valle di Susa con i suoi protagonisti e con la sua vita sociale impone alla narrazione ritmi, scansioni e - anche - caos che non sono certo quelli tipici della saggistica storica. Insomma, è storia, ma è disturbata, umanizzata e nobilitata dalla memoria.
È evidente che Chiara non crede all'informazione senza passioni (che sarebbe l'ideale dello storico), ma è altresì evidente che non ha fiducia nell'emotività pura del ricordo e della propaganda. Più di una volta, in passato, vivaci intellettuali hanno affermato che la letteratura ha capacità evocative che la secca ricostruzione storica non ha e non può avere. La storia non riempie i vuoti, la letteratura sì. La letteratura racconta, la narrazione dà alle vicende che espone una continuità che si regge sull'integrazione: la descrizione di un luogo, di un momento di vita comunitaria, di un sentimento individuale o collettivo, può avvicinarsi alla verità proprio perché non prende in esame la rinuncia, ma cerca di completare, di arricchire in modo attendibile, di compensare con il buon senso e la cultura. L'autrice sembra avviarsi su questa strada, ma poi frena in ogni momento, perché alla verità oggettiva tende, e sempre preferisce il "documentabile" al "bello".
Che cos'è, allora? Un diario? In parte sì, e il sottotitolo lo suggerisce.
Ma è il diario che non potrebbe esistere di una persona che non potrebbe esistere. Un diario vero conterrebbe descrizioni della quotidianità in cui entrano a far parte, a pieno titolo, gli echi della vicende esterne alla biografia individuale: vicende di valle che si intrecciano con notizie dei telegiornali, lotte politiche della quotidianità che si intrecciano con gli argomenti via via trattati nei quotidiani nazionali. Ma il soggetto - l'autore di un diario vero - non avrebbe mai un punto di vista privilegiato: sarebbe un abitante della valle di Susa che di alcuni fatti è testimone in prima persona, di altri eventi conosce quanto ogni destinatario della grande informazione. Qui, invece, è evidente la mano di chi non ha scritto progressivamente paginette diaristiche, ma ha accumulato moltissime fonti e, in un tempo circoscritto, le ha messe in contatto con la propria esperienza, le ha rivitalizzate, ha riaperto spiragli del passato personale e della valle. Del diario ci sono informazioni minuziose, parole esattamente pronunciate in una certa riunione; ma diverse valutazioni sono possibili perché, invece, chi scrive lo fa molti anni dopo, e ha nozione, adesso, di come alcuni eventi abbiano segnato il corso della storia locale e nazionale.
In più, è bello che sia la dimensione personale a conferire peso diverso ad alcune tappe della storia contemporanea. I massimi eventi politici ci sono tutti. Ma sono ovattati quando sono più lontani, hanno l'odore del sangue, dei fumi di scappamento e anche della polvere da sparo quando hanno toccato più da vicino la valle. Se è un abitante della Valle di Susa a essere stato convocato come esperto per valutare una grande tragedia, allora quella tragedia campeggia anche se è lontana: è il caso dell'aereo abbattuto su Ustica.
Come definirlo, allora? Una specie di diario postumo, una rivisitazione di chi non prende le distanze rispetto al passato e ai suoi umori, vuole rievocarlo riproducendone, se possibile, anche i suoni: forse davvero un "canto" come dice il titolo. Un canto che a tratti ci ricorda il rapporto fra Guccini e Ligabue e la loro Emilia-Romagna: storie soggettive di uomini che tuttavia, ogni giorno, percepiscono anche la realtà a essi non direttamente riconducibile; e che, ogni giorno, quella realtà la fanno propria, la trasformano in esperienza, sono in grado di filtrarla, ma con il rigore e la concretezza della quotidianità e non con la deformazione mitizzante del vero tradizionale cantastorie.
Chiara va più in là ancora, perché quando c'è un'informazione da comunicare nel dettaglio lo fa. Coraggiosamente interrompe i suoi tumultuosi ritmi narrativi e diventa 'verbalista' di pezzi di passato, quasi volesse consegnare le fonti al lettore perché il lettore ne faccia l'uso che vuole. Un diario postumo e anche un canto documentato, dunque. Un ibrido: si potrebbe quasi azzardare che questo libro abbia creato un genere letterario, ma non è così, perché l'esperienza è soggettiva e irripetibile.
Anche la lettura può essere soggettiva. Chi vuole può munirsi di evidenziatore, cercare i dati, isolarli e collegarli fra loro: se poi legge in sequenza le parti evidenziate, impara moltissimo e in modo lucido, dalla dimostrata falsità dei finanziamenti privati all'Alta Velocità agli ondivaghi schieramenti delle forze politiche nazionali. Ma chi lo desidera può abbandonarsi al flusso dei ricordi 'guidati' e, qualche volta, perdersi nel labirinto di illusioni e disincanti, di lotte e stanchezze che hanno accompagnato tanti anni di storia di un territorio troppo montano per 'contare' e troppo cruciale per essere felicemente dimenticato, come altre e minori valli alpine.
Il messaggio più positivo è quello che ha a che fare con la democrazia, la democrazia operante e lontana da ogni astrazione. I protagonisti, con i loro nomi e, spesso, con le loro stesse voci che sembra di udire, hanno percorsi vari, ma risultano nella gran parte disposti a dare e ricevere informazione; a maturare i loro convincimenti attraverso la sedimentazione dei dati, la valutazione condivisa degli interessi di una comunità, lo sguardo collettivo sulla prepotenza esterna. Attenzione: è sguardo, non è diffidenza. L'atteggiamento anti-TAV non risulta passatista, misoneista e pregiudiziale, ma risulta inesorabilmente ampliato e sempre più corale, frutto di convincimenti comuni.
Qui poteva crearsi un distacco fra la popolazione e i suoi organi rappresentativi: non è avvenuto. Il libro, con grande sobrietà, tesse nei fatti l'elogio di un'istituzione: la Comunità Montana. È raro che un organo rappresentativo sia veramente rappresentativo. Nella politica moderna tende a far prevalere la propria funzione di mediazione verso l'altro e verso l'alto, o addirittura una funzione pedagogica - per lo più non richiesta - di convincimento verso il basso. La Comunità Montana invece ha davvero "rappresentato", e ancora lo sta facendo. Lo ha fatto mettendo in circolazione dati e opinioni, lo ha fatto interagendo quotidianamente con gli abitanti, lo ha fatto costruendo un patrimonio comune di conoscenze e di intenti: ha avuto al vertice persone oneste e di qualità, adattissime come espressioni di una bella vicenda di democrazia di base.
È un patrimonio che rimarrà, comunque vada a finire la battaglia che ha aiutato a costituirlo. E di tale patrimonio questo libro sarà una testimonianza difficile (perché affollata) ma vivissima (proprio perché affollata).
prima manifestazione notav Sant'Ambrogio 3 marzo 1996
primo logo Notav disegnato dall'avvocato Massimo Molinero e prime cartoline disegnate da Chiara Perotto
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