Presentazione
Che il genere biografico sia uno straordinario strumento di ricerca, una via privilegiata per penetrare nel passato è ormai una verità accertata: sforzandosi di capire il senso dei pensieri e delle azioni di un individuo, il biografo finisce per richiamare l'universo di relazioni e di valori cui egli faceva riferimento, ricostruendo così un pezzo più o meno ampio di società e di storia. Già Dilthey aveva scritto che "la conoscenza delle realtà individuali, e la descrizione di esse nel proprio ambiente sociale, costituisce uno dei compiti più alti dello storico e la profondità del suo lavoro non ha minore importanza delle rappresentazioni storiche nelle quali viene trattata una vasta materia. [...] Solo lo storico che abbia costruito la storia partendo da queste viventi unità e che abbia cercato di farsi un'idea delle classi sociali e delle diverse epoche storiche, potrà offrirci, al posto delle morte astrazioni costruite negli archivi, un quadro della realtà viva della storia".
Tutto questo naturalmente a condizione che chi indaga non rimanga alla superficie della vita di un uomo, limitandosi all'accumulazione di dati su di lui o alla pittura di un ritratto di maniera. Una tentazione, quest'ultima, molto grande, soprattutto quando si ha a che fare con un personaggio eccezionale, vissuto in una congiuntura storica anch'essa eccezionale, che ha richiesto nette scelte di campo, capaci a loro volta di suscitare ancora oggi reazioni ideologiche ed emotive.
E' questo appunto il caso di Francesco Foglia.
Nato il 2 settembre 1912 a Novalesa, è avviato da uno zio prete alla vita ecclesiastica. E' espulso dal seminario di Susa nel 1932, in circostanze tuttora non chiarite (il ritrovamento di un diario poco benevolo verso i superiori o un atto di disubbidienza?) e completa gli studi in Francia, al seminario di St. Jean de Maurienne, dove è ordinato sacerdote nel settembre del 1935.
Curato per alcuni anni in una parrocchia della diocesi di St. Jean, la lascia per tornare in Italia nel 1939, quando già si sono deteriorati i rapporti tra Italia e Francia. Non è una fuga la sua, ma una decisione animata da ideali patriottici e nazionalistici; tanto che al momento in cui l'Italia entra in guerra si arruola come cappellano militare, con gli alpini di una compagnia destinata ai Balcani. E qui partecipa attivamente alle azioni militari contro la guerriglia locale: ferito nel maggio del 1942, viene premiato con una medaglia d'argento al valore militare. Rientrato in Italia con la sua compagnia alla fine del 1942, dopo la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943, si schiera con le bande partigiane; e anche qui la sua adesione alla Resistenza non si riduce a un sostegno dietro le quinte e a un lavoro di collegamento tra le diverse squadre, ma lo spinge a diventare protagonista diretto di atti di lotta e di sabotaggio, come quella che fa saltare in aria il ponte dell'Arnodera.
Arrestato nel gennaio del 1944 è deportato, prima a Mauthausen e poi a Dachau. Riesce a sopravvivere ai campi di concentramento e a tornare nel luglio del 1945, per riprendere il suo posto di parroco a Moncenisio. Vittima di uno scandalo gonfiato dai giornali nel 1946, in seguito a un'accusa di contrabbando, è colpito, a poche settimane di distanza, da una disgrazia ben più tremenda: due nipotini, di sei e sette anni, in vacanza presso di lui a Moncenisio, sono dilaniati da una bomba, un probabile residuato bellico. Questa sciagura lo segna profondamente ed è - sembra - all'origine di un'inquietudine che lo accompagnerà sempre e gli impedirà di fermarsi ancora nelle sue terre: partito per il Brasile nel 1947, rimane per diciotto anni in una parrocchia del Paranà; rimpatriato, è tormentato da una depressione che lo costringe di nuovo ad andarsene, questa volta in Germania, dapprima sacerdote presso un sanatorio e poi presso una casa di riposo per anziani ad Hauzenberg. Qui morirà nel settembre del 1993.
Il rischio che la biografia su un uomo come Francesco Foglia si trasformasse in una delle tante pubblicazioni celebrative con scarse finalità e possibilità euristiche era dunque molto alto. Gli autori sono invece riusciti a evitarlo: più che la ricostruzione conclusa e definita di una vita, è il racconto di un'esperienza di ricerca personale, di un cammino di esplorazione fra le tracce lasciate da don Foglia, per provare a comprenderne le difficili e in qualche caso contraddittorie scelte. E non sono quasi mai tracce scritte quelle che incontrano: infatti una delle costanti di tutti le persone che compaiono in questo libro - Francesco Foglia, i suoi parenti, i suoi amici - è la distruzione sistematica di ogni manoscritto. Per liberare case troppo piccole da inutili ingombri, come essi si affrettano spesso a spiegare; ma anche, si può supporre, per pudore nei confronti dei propri legami più intimi e per sfiducia nel valore documentario della propria vita.
Per questo l'impresa diventa una vera e propria peregrinazione: Chiara Sasso e Massimo Molinero cercano pazientemente e onestamente la risposta alle loro domande nei luoghi e negli edifici che sono stati teatro della vita di Foglia, nelle emozioni visive che essi comunicano e nel passato che evocano; ma soprattutto nelle persone che lo hanno conosciuto e che possono riferire su di lui - sorella, nipoti, partigiani, sacerdoti compagni di seminario o di parrocchia - dando alcune informazioni su di essi e restituendone integralmente la testimonianza. Ne viene fuori un'opera a più voci, che lascia spazio ad altre vicende biografiche oltre a quella del protagonista: essa rinuncia deliberatamente a proporre una soluzione definitiva per la maggior parte dei quesiti posti dalla vita di don Foglia, ma proprio per questo coinvolge in modo più intenso il lettore, trascinandolo direttamente e quasi invischiandolo nello sforzo di immaginazione e comprensione.
Maria Carla Lamberti, Università di Torino
Prefazione
Si possono contare sulle dita di una mano, le volte che ho incontrato personalmente don Foglia e
quasi tutte riferite e disperse in quel mare di informazioni, notizie, relazioni e documenti su di lui
che Chiara Sasso e Massimo Molinero, con l’ostinazione ed il fiuto di un Sherloch Holmes e con il
movimento vorticoso di una trottola, al di qua e al di là delle Alpi, hanno raccolto e presentato in
questo libro. Ed il ritratto (forse sarebbe meglio dire scultura) che ne scaturisce corrisponde
perfettamente all’impressione che ne avevo avuto in quei pochi contatti, ed a quella, ben più
motivata da una frequentazione lunga e continuativa, che ha colpito tutti coloro che lo hanno
conosciuto meglio di me, come appare nelle interviste.
“Era un uomo tutto d’un pezzo” (don Trappo), “indipendente (don Ravetto), “uno spirito indomito”, “duro con se stesso e con gli altri” (don Amprimo), ma “tollerante” (Sergio Bellone), “burbero e
allegro” (Bruno Carli): queste sue caratteristiche hanno subito, destato in me, nonostante le diverse situazioni personali, una grande ammirazione e in seguito, un sentimento di simpatia e di amicizia, che ho la presunzione di pensare da lui contraccambiata, anche se sapeva benissimo che io ero
mezzo ebreo (da parte di madre) e comunista intero (…da tutte le parti!). Era lo stesso legame - che
oggi può apparire quasi inconcepibile - ma ben più profondo, che ha unito per tutta la vita don Foglia a Sergio Bellone, senza che nessuno dei due deviasse di un millimetro dalle proprie
convinzioni, ma con quell’assoluto rispetto reciproco che era alla base della loro fraterna amicizia. Questo si comprende se si ricorda quando ebbe origine: in quei terribili ultimi quattro mesi del 1943, quando la direzione militare, politica e, se non temessi di cadere nella retorica, direi anche “morale”, dei primi nuclei partigiani della nostra Valle, era affidata, con pochi altri, a un ingegnere comunista, uscito da poco dalle galere fasciste (Sergio Bellone); a un cappellano militare, reduce
dai fronti di guerra (Francesco Foglia), e ad un brillante ufficiale “di carriera” (il maggiore Valle, il futuro generale Egidio Liberti), che agivano in perfetta sintonia, nonostante le tradizioni familiari, le
condizioni sociali ed i caratteri personali così diversi.
Era un segno di quello spirito unitario che formava il cemento della prima resistenza armata della Valle di Susa.
Erano questi gli Uomini (sì, con la U maiuscola) che scrivevano allora pagine di Storia (sì, con la S
maiuscola), come dice il titolo di questo libro, senza averne (o no?) la consapevolezza, un po’ come
gli indigeni de “La scoperta dell’America” di Pascarella, che erano americani e “manco lo
sapevano”.
Ed a fianco di questi comandanti, animati non dalle loro parole (fatta eccezione per gli infiammati
discorsi per il “giuramento” dell’8 dicembre), ma dal loro esempio, dal loro comportamento, dalle loro azioni, vi erano non solo i partigiani, ma tutta la popolazione (con qualche rara eccezione) ed
era quindi quasi naturale, che anche il clero più vicino ai fedeli partecipasse a questo movimento. Ecco la spiegazione, oltre a quella ovvia per la biografia di un sacerdote, di quel lungo elenco di parroci e di religiosi che troviamo in queste pagine: essi sono, con la loro partecipazione attiva alla
lotta o, almeno, con una benevola neutralità nei nostri confronti (salvo, anche qui, rare eccezioni), la
dimostrazione che la Resistenza, se ebbe anche qualche aspetto secondario di “guerra civile”, fu, in
realtà - almeno io credo – una grande e totale “guerra di popolo”, come assai raramente accade nella Storia.
Insieme, alla fine della guerra, finisce anche quello spirito unitario che aveva permeato di sé la lotta di liberazione, ma non terminano le disavventure di don Foglia e non termina la sua amicizia con
Sergio, anche perché continuano ad essere due “ribelli” - nel significato più nobile del vocabolo - e come tali, continueranno a non essere molto apprezzati dalle superiori gerarchie: ecclesiastiche, per il primo, partitiche, per il secondo.
Poi Francesco pone fine, proprio in Germania, alle sue peregrinazioni e ne diventa un convinto
ammiratore, con grande meraviglia (e…rabbia) di Sergio. .Cosa c’è dietro a questa “conversione”?
si chiedono gli autori. Penso ad una volontà di “espiazione” per la “colpa” della morte dei due
nipotini e per l’altra “colpa” di essere sopravvissuto al campo di concentramento (ricordate il
suicidio di Primo Levi?), ma –è una mia convinzione personale - anche una certa affinità di carattere (nel linguaggio comune, una figura con le caratteristiche di don Foglia, non si definisce forse, con
un misto di ammirazione e di deplorazione, “un tedesco?”) e, inoltre, non una maturata distinzione
fra i nazisti e i tedeschi, ma la più cristiana distinzione fra il peccato (il nazismo) ed i peccatori (il
popolo tedesco). Questo è l’ultimo insegnamento di cui gli sono grato, pur sapendo di non avere
l’approvazione di Bruno e di Sergio…
Ma non si può, come alcuni miei parenti ebrei, rifiutare di sentire la musica di Wagner, perché
tedesco e poi acquistare un frigorifero “Bosch” perché si sa, i prodotti tedeschi…). Ecco: la
coerenza. E’ stato un altro degli insegnamenti di don Foglia, anche in quest’ultima apparente
contraddizione “tedesca” e lo rivela la testimonianza di Bruno Carli, quando ricorda che, a una
battuta un po’ audace del fratello Carlo, risponde a muso duro, che lui, prima di essere un
partigiano è un prete.
Grazie a Chiara e a Massimo, per aver ricreato la presenza di don Foglia per noi che l’abbiamo conosciuto di persona e per quelli che non hanno avuto questo privilegio, e anche grazie per aver
dato l’occasione a me di dire ancora una volta: “Grazie don Francesco”.
Ugo Berga
Il libro è diventato una rappresentazione teatrale con Marco Alotto
nel giugno del 2001
"Francesco Foglia sacerdote".
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