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Digerire l'amianto
Prefazione
di Marco Lo Bue
"Questo pomerìggio vengono quelle della S.I.A.".
L'allusione sbrigativa non è irriguardosa: sottointende soltanto l'intenzione di passare subito al problema. Seduto dall'altra parte della, mia scrivania, Albino Rossello, assessore al lavoro, ha l'espressione di chi si appresta a raccontare una brutta storia che non sa da che parte affrontare: la chiusura della fabbrica avvenuta alcuni anni prima, la cassa integrazione speciale non più concessa, le pensioni perse perché mancavano poche settimane a maturare l'età minima, la disoccupazione di oggi, l'amianto nei polmoni, l'asbestosi, i tumori, le morti, le indagini della magistratura.
Queste donne, oggi, a lavorare non le vuole più nessuno. Rossello ha inviato l'elenco dei nomi a molte aziende di Grugliasco e ogni tanto ci riprova, senza alcun risultato.
Scendendo le scale verso la sala consigliare cerchiamo di concordare cosa dire, anche se sappiamo di aver ben poche cose da dire: andiamo ad ascoltare. Devono trascorrere ancora due o tre anni prima che il grande centro commerciale di Corso Marche entri in funzione ed offra qualche opportunità anche per queste donne.
Dall'esterno la grande sala è silenziosa e sembra essere deserta, invece ci sono tutte, una cinquantina, venute per incontrare il nuovo sindaco. Si sono sedute nei banchi dei consiglieri e nelle prime file del pubblico, non sparse qua e là ma una accanto all'altra, senza lasciare posti vuoti in mezzo a loro. Parliamo della cassa integrazione speciale, dell'opportunità di formare una cooperativa per ottenere servizio di pulizia al centro commerciale e nelle fabbriche, parliamo della S.I.A., della sua chiusura, di quello che c'era lì dentro, delle visite all'INAIL, al CTO, dai medici privati; parliamo del senatore Gianotti e di quello che in questi anni ha fatto e cercato di fare qui a Torino ed al Ministero, "a Roma". Parliamo dell'amianto.
Prima una e poi l'altra quasi per caso passano dalla conversazione al racconto. Non so cosa c'è stato ad incoraggiarle, forse non hanno avuto bisogno di alcun incoraggiamento: come l'amianto nei polmoni, anche questo libro, che in questa sala diventa palpabile sotto ai miei occhi, ce l'hanno dentro. Lo stesso racconto fatto di tante storie diverse.
Donne siciliane, pugliesi, meridionali, venute al Nord per lavorare alla S.I.A., chiamate dai fratelli, dai padri, portate su dai mariti, tutti alla Sia a respirare amianto. E cosa poteva significare l'amianto in Sicilia o in Puglia? Lavoro e basta. Fatica, certamente sacrifici, forse umiliazioni, ma soprattutto lavoro e un poco di benessere: l'azienda prometteva anche la casa, il riscaldamento e la luce gratis.
Poi, anni dopo, tutto il resto. Qualcuno finalmente parla chiaro, il sindacato entra nella fabbrica; finalmente è consentito capire e sapere senza più la possibilità di cercare nei dubbi e nella finta tranquillità di altri una ragione per sopire la propria angoscia i proprì timori. Quando la fabbrica chiude tutti i dubbi sono rimossi, tutte le sofferenze, le umiliazioni e le lotte rese inutili; esplodono la certezza di un'atroce raggiro giocato sulla pelle, sugli affetti, sulla salute, ed il rancore verso i poteri pubblici ancora oggi attorciliati nelle indagini, perizie e controperizie, analisi e controanalisi, nelle competenze ed incompetenze dell'uno e dell'altro. Le operaie della Sia oggi rivendicano il diritto ad una solidarietà istituzionale e i loro racconti quelli di costruire parte della loro memoria storica della città.
Gli allievi di alcune classi della Scuola Elementare "Bruno Ciarì", nello stesso quartiere ove una volta sorgeva la Sia, hanno allestito una mostra storica su Grugliasco ed invitano il sindaco a visitarla. Alle pareti di un'aula hanno affisso i pannelli della loro ricerca: Grugliasco immaginata nel 1400, tanti disegni, fotocopie di una mappa catastale Napoleonica del secolo scorso, altre fotocopie di bolle reali, vecchie fotografie dei primi anni del '900. In una di queste è riprodotta la facciata di un'antico stabilimento con la sua bella e grande targa sull'ingresso: "Società Italo-Russa dell'Amianto".
Una fabbrica nata nel 1857, fra le prime e in quell'epoca e più importanti della zona insieme alla Manifattura dette Spazzole e dalla Cooperativa delle Lime. Ancora oggi, in città, alcuni la chiamano come allora: l'Italo-Russo e basta.
A Grugliasco c'era anche un manicomio; oggi è rimasto il parco con i grandi alberi il muro di cinta ed i padiglioni vuoti. Nell'ex ospedale sono ospitati ancora una sessantina di ex degenti organizzati in comunità socio-terapeutiche sulle cui esperienze Chiara Sasso due anni fa ha scritto il libro "Diecimila lenzuola dopo".
La faccia nascosta di avvenimenti dati per scontati. Per Chiara Sasso la "storia" da qualsiasi parte conclamata è un evento di scarso interesse, acquisibile altrove. Anche questa volta Chiara preferisce costruire il suo libro attraverso la forza residua degli eventi narrati oralmente, ciò che è stato anche attraverso ciò che queste donne sono oggi; donne che non cedono perché vogliono vedersi riconosciuta l'invalidità professionale, avere una pensione adeguata, vogliono poter ancora lavorare.
Mi piace immaginare questo libro come un libro non concluso, quindi, come non concluse sono le vicende che narra e quelle che inaspettatamente introduce: i primi, recenti contatti di queste donne con il movimento che nel nostro paese lotta contro l'amianto, gli inquietanti interrogativi su altre piccole Sia oggi nascoste nell'anonimato del lavoro artigianale.
Una storia di donne dunque e per questo motivo le operaie della Sia insieme a Chiara, hanno pensato di coinvolgere altre due donne per parlare di questo libro. Franca Rame, da sempre conosciuta come un'autrice ed interprete teatrale impegnata a testimoniare sulla figura e condizione della donna; e l'avvocato Bianca Guidetti Serra, una figura di costante riferimento in questi anni, protagonista fra l'altro di numerose vertenze giudiziarie sulla salute in fabbrica.
Marco Lo Bue, Sindaco di Grugliasco
Prefazione
di Bianca Guidetti Serra
"Digerire l'amianto" è il tìtolo del nuovo lavoro di Chiara Sasso. Un tìtolo che colpisce, violentemente, per le connessioni immediate che suscita: le centinaia e centinaia di morti, le migliata e migliaia di lesi e di invalidi, le infinite sofferenze di coloro che per vivere lavorano e, soprattutto, hanno lavorato l'amianto. Che l'hanno lavorato spesso inconsapevoli, il più delle volte sospettando o addirittura conoscendo il rischio che correvano ma non avendo il coraggio o non essendo in condizioni di scegliere un'altra strada. Certo nella speranza di farla franca.
In questo libro l'autrice racconta la storia di un gruppo di ex operaie della S.I.A. (Società Italiana Amiantifera). Quasi tutte immigrate dal Sud. Una storia molto simile a quella dell'l.P.C.A. di Cirìè, dell'Eternit di Casale Monferrato, delle Cave di Balangero e di tante altre.
Queste donne, insieme, cercano di ottenere un riconoscimento particolare del danno subito per avere lavorato quel particolare metallo che le ha rese ammalate o invalide. "Ma — commenta una — sono quattro anni che giriamo senza concludere niente. Non ci vogliono neppure riconoscere la "cassa integrazione speciale".
Di qui la loro protesta. E così, mentre sfilano in un corteo dimostrativo (un po' vergognandosi delle persone che guardano dai balconi), mentre mimano una scena per la TV davanti alle porte della fabbrica ormai chiusa, mentre siedono intomo al tavolo della biblioteca comunale, o scendono le scale di uno dei tanti edifici dove hanno portato la loro protesta, è un continuo parlare tra loro. Un continuo commentare la loro condizione, un continuo scambiarsi ricordi ed esperienze. Quasi sempre tristi e penose: la fatica del lavoro, le prepotenze dei capi, le condizioni misere della famiglia, le malattie, le morti. Quelle naturali e quelle causate dall'asbestosi, dalle varie patologie cancerogene dell'amianto. Solo di tanto in tanto e inframezzato un ricordo che fa sorridere; la descrizione dell'abito da sposa, per esempio e di come era confezionato e ricamato. O la festa di nozze.
Certo non manca qualche risata, ma presto soffocata. Come quando qualcuna incomincia in apparenza celando, a proclamare la "percentuale" d'invalidità che le hanno riconosciuta, quasi a gara con le altre. Percentuale che, peraltro, è quasi sempre "inferiore" al reale, affermano tutte. Quella percentuale che, comunque, oltre un certo limite, e tutte lo sanno, indica l'inesorabilità di una fine.
Così, nel peregrinare da un'autorità all'altra, dal Sindaco al Sindacato, dal partito politico al "senatore" o addirittura dal Pretore, in quel parlare si ricostruisce la loro vita di donne operaie e operaie dell'amianto.
Perché quel lavoro, intanto? Non ne temevano le conseguenze? "lo andavo a casa e lo dicevo a mia madre; guarda lì c'è molta polvere, sembra una nebbia, non si vede da lì a lì" racconta una delle protagoniste e aggiunge: "Le vecchie mi dicono di andarmene. Ma mia madre mi diceva di non dar retta, mi diceva la gente è invidiosa... invidiosa perché tu finalmente hai un posto di lavoro che la Madonna ti ha mandato...". Aggiunge un'altra: "Non si può interpretare con la mentalità di oggi. Sarebbe sbagliato. Le donne andavano a lavorare all'amianto, così come gli uomini andavano in fonderia "Un lavoro come un altro. Dava da mangiare". E una terza: "Se qualcuno moriva era perché prima o poi bisogna morire. Se morivano giovani, era perché era destino".
Il rischio? Si sapeva che c'era; ma l'informazione era incerta, non completa e prevaleva la necessità di guadagnare da vivere sul dubbio del se e del come, in un futuro più o meno prossimo, si sarebbe vissuti. "Destino" dunque rischiare la propria incolumità, magari la vita, per ottenere una paga. Un lavoro inteso come una sofferenza necessaria, non un semplice contratto. E c'è pur sempre la possibilità di scamparla. "Lo sai che c'è gente che non ha nulla? Neppure una piccola traccia anche se ha lavorato venti anni?".
Ma perchè in quella fabbrica? "La mia casa era proprio vicina, era considerata una fabbrica come le altre. Sì forse un poco più brutta, più sporca, ma io pensavo che questo incoveniente l'avrei dovuto barattare con il fatto che riuscivo a lavorare, e nello stesso tempo curare la casa, la famiglia". "Poi alla fine anche il medico della fabbrica me lo diceva: se ne vada di qui... io non dovrei dirlo, ma se ne vada... per comodità sono rimasta ancora lì, a lavorare. In dieci minuti ero a casa. Riuscivo a fare tutto, a badare a tutto". Ecco dunque accompagnarsi colla necessità di lavoro, inevitabile, quella di assolvere anche ai tradizionali compiti femminili.
"E come ti trattavano negli ospedali? Anna ancora freme di rabbia" nel pensarlo.
E la qualità del lavoro? GrazieIla ricorda "quando doveva pulire la macchina; allora non esistevano aspiratori, niente, si puliva la macchina con le pistole ad aria oppure con i grossi cartoni sbattendoli per togliere la polvere; dall'altra parte c'erano i tavolini con le lavorazioni delle più giovani, quindicenni, ventenni al massimo... e su di loro finiva inevitabilmente tutta quella polvere".
''Come prevenzione davano da bere del latte, dice una, ma non c'era la mentalità per berlo, sembrava sprecato. Bere del latte solo per fare digerire la polvere... La fabbrica regalava un litro di latte e le donne
lo portavano a casa per i figli".
Ma non si parla solo delle sofferenze legate ad un passato più o meno lontano. Ve ne sono di legate alla condizione attuale. Chiusa la fabbrica quasi tutte queste donne sono alla ricerca di una nuova occupazione. Ma, molto spesso, è ricerca vana. "Non siamo solo rimaste senza lavoro... con questa maledizione addosso nessuno ci vuole assumere. Pensano che siamo contaminate... che faremo troppa mutua".
Il libro mette insieme le frasi di queste donne, colte dal vivo, testualmente trascrìtte, abilmente ricomposte e tra loro collegate dalla penna abile di Chiara. Ritroviamo così quel suo caratteristico modo di scrìvere che già conoscemmo in "In rosa" (Ed. Tipolito Melli, Susa) e in "Diecimila lenzuola dopo" (Ed. Centro documentazione Casap).
Una frase netta, posta spesso a capo pagina come per l'inizio di una composizione poetica che ti immette nell'argomento. Poi la meditata scansione degli spazi tra perìodo e perìodo, a mettere in rilievo e distinguere i vari argomenti. Un modo che è certamente voluto. Ma, sono convinta, non solo per una ragione di forma. "Meglio introdurrò così il contenuto", credo abbia pensato Chiara. Un contenuto che appare sempre preminente e che esprìme l'impegno profondo dell'autrice per i problemi della gente, la sua volontà di concorrere a risolverli, di dare voce alla sofferenza umana. Se già fu quella della madre di un figlio incarcerato e poi quella della vita in un ospedale psichiatrico con il lavoro dell'uomo e della donna, che viene affrontata. Per questo motivo nella mia breve presentazione al libro ho fatto ampio uso delle stesse frasi che lo compongono, volendo anch'io lasciare voce ai protagonisti.
Infine, è noto (forse non abbastanza!) che è in atto una campagna per ottenere sul piano legislativo e reale l'occasione della lavorazione dell'amianto i cui rischi sono ormai ben noti. Anche sotto questo aspetto
Il libro di Chiara è un apporto non indifferente.
Bianca Guidetti Serra
Postfazione
di Franca Rame
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Oh, finalmente una persona che scrive in forma davvero diretta e chiara, su un argomento così ostico e difficile, dove è facile cadere nel compiacimento con il richiamo delle lacrime.
Dico la verità, io da tempo non riesco più a leggere le storie (romanzi) con le introspezioni, le allegorie, l'autore e l'autrice che si guardano l'ombelico e ci ricamano intorno.
Finalmente una storia raccontata come un corale tragico ed epico al tempo, dove non c'è il solito eroe più o meno mitico e sovverchiante, che sovrasta le solite mezze figure di contorno. E anche non si fa uso del "commentario" per fare intendere il sottinteso o accrescere il pathos tragico. Qui Chiara è davvero chiarissima e semplice, meglio dire: esemplarmente semplice nella sua sintesi fatta di ritmi e tempi, successioni attraverso le quali riesce a vedere e leggère il clima delle coralità, le facce dei personaggi, la tragedia ed il grottesco. E su tutto incombe, quasi mitica, la forbice del fatalismo pronta a recidere le vite di una folla di donne aggredite dal terribile male che viene dal lavorare l'amianto.
L'amianto è nella loro voce, nel loro respiro, gli occhi di quei personaggi da tragedia greca sono d'amianto, le loro parole rimbombano di amianto. Insomma finalmente un testo che dice da se tutta l'indignazione di cui racconta: il gesto civile, la civile lezione di solidarietà verso i bastonati, non a caso, tutte donne.
Chiara, ti conosco da molti anni, ti ricordo timidissima nel camerino del teatro Alfieri, quando mi venivi più che partecipe a parlare dei problemi dei detenuti politici della Valle di Susa.
Ho letto con passione i tuoi due libri: "In Rosa" la storia della madre di un detenuto politico magnificamente coraggiosa; "10.000 lenzuola dopo" sul manicomio di Grugliasco.
So qualcosa della tua vita, anche se poco, ma mi ti ci sono affezionata. Nella lettera che accompagnava questa tua nuova opera e dove mi proponevi due righe di prefazione mi dici: "hai lasciato un grosso segno in molte persone che parlavano di te come se ti avessero visto ieri e tu fossi la tizia della porta accanto". Anche tu hai lasciato dentro di me, un grosso segno. Sei una delle pochissime persone alle quali sono ancora vicina, che stimo e apprezzo per l'impegno politico-sociale costante, mai sbiadito. Ti ringrazio per l'occasione che mi hai dato di esprimere un rapido pensiero sul tuo lavoro e lasciamelo dire, anche per l'onore che mi hai regalato dandomi questo spazio.
Franca Rame
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